No, tranquillo: non parlo di vino e nemmeno voglio indurti a una sana bevuta di gruppo!
Anche se, ne converrai, di primo acchito il ‘filtraggio collaborativo’ sembra effettivamente riferirsi a una goliardica pratica da ex Alcolisti Anonimi piuttosto che indicare quello che effettivamente è.
Il termine viene dall’inglese ‘collaborative filtering’.
Parte dal presupposto che persone con gusti simili possano trarre giovamento dal giudizio reciproco. È il metodo per eccellenza dietro alla maggior parte dei business nati e cresciuti in ambiente digitale, finalizzato a incentivare l’ottenimento di raccomandazioni da parte di utilizzatori di un servizio o un prodotto affinché loro ‘simili’ vi si affidino per scegliere la medesima cosa.
Effettuare scelte è, effettivamente, attività alquanto complessa per noi esseri umani.
Spesso viene valutata da quel pigrone del nostro cervello come estremamente faticosa e dispendiosa, e perciò affidata a valutazioni meno razionali (quando non accantonata per tempi migliori), aspetto di cui tener conto quando, con il Customer Minding, siamo chiamati a progettare architetture delle scelte favorevoli ad aziende che aspirano a farsi preferire per il loro lavoro.
Per il tuo, di lavoro, ti può già essere utile una raccomandazione su tutte: le ricerche condotte nel campo delle scienze sociali convergono nell’affermare che, di fronte a scelte numerose, complesse o afferenti a più dimensioni, gli esseri umani adottano comportamenti di semplificazione. Uno dei miei studiosi preferiti, Amos Tversky, ha definito questo agire con il termine ‘elimination by aspects’: stabiliamo più o meno rapidamente il criterio – le caratteristiche maggiormente rilevanti, la soglia massima per ottenerle – e poi eliminiamo tutto quanto vi si discosta. Non importa quanto siano favolose le alternative in cui incappiamo: se non soddisfano il criterio, semplifichiamo e bocciamo.
Ecco: il filtraggio collaborativo tende a bocciare per noi gli aspetti meno rilevanti partendo dal presupposto teorico che quanto è già stato eliminato da nostri simili – o, al contrario, quanto da loro è stato preferito – valga anche per noi. Ciò dovrebbe aiutare il marketing a risolvere problemi di architettura delle scelte: quando una persona viene a conoscenza di cosa è apprezzato da qualcuno con gusti simili, si sente rassicurata e propenderà per la medesima scelta.
D’altronde, se desideriamo modificare i comportamenti individuali è spesso sufficiente informare le persone di ciò che altre stanno facendo, applicando le ben note teorie di influenza sociale. Pensaci: cosa accade su Amazon? O su Netflix? Le nostre scelte ricevono suggerimenti affini, mediati da giudizi di altri (utenti o azienda), in un percorso di facilitazione della vita dei nostri neuroni, imitativi per natura.
Attento, però: i postumi da filtraggio eccessivo potrebbero portare forti mal di testa.
Pensa al cibo: è in atto una proliferazione di offerta, con una forte spinta verso la qualità. Allora, dobbiamo chiederci se strumenti come TripAdvisor siano il modo migliore di scegliere. In quell’app il filtraggio collaborativo è portato al suo estremo, anzi è assurto a unico criterio di scelta, in base al presupposto – tutto da dimostrare – che la media dei giudizi dei tanti possa far emergere la migliore indicazione per me. Ennò: la media dei tanti non è la media per me, io non sono tanti, anzi! Tanti non esperti genereranno raccomandazioni mediocri (d’altronde, che c’azzecca col mangiare bene il giudizio negativo dato da chi era seduto vicino alla porta dei bagni?), poco utili alla mia personale Customer Experience. Così il filtraggio da collaborativo diventa palliativo e apre a scelte diverse, più individuali e personali.
In conclusione, evita la sbornia da filtraggio collaborativo: “se piace ad altri, piacerà anche a noi” non vale per il vino, figurati per il resto.